L'INFERNO NELLA CAMPAGNA MAREMMANA


Dialogo tra Valentina Vannicola e Benedetta Cestelli Guidi

tratto da "L'Inferno di Dante" a cura di Benedetta Cestelli Guidi, edito da Postcart, 2011


Valentina Vannicola (1982) è un’artista che trae ispirazione dalla letteratura e la traspone in immagine, attraverso un calibrato e corale lavoro di sceneggiatura e regia. Per realizzare la traduzione visiva del testo Valentina Vannicola è protagonista di molti settori del fare artistico, rivestendo i panni della lettrice attiva e poi di scenografa, costumista, sceneggiatrice ed infine di fotografa dei set che pianifica con maestria; la fotografia è dunque il risultato di un processo che prevede l’attraversamento di tutte queste competenze specifiche.
Nel 2011 Valentina ha realizzato un nuovo lavoro ispirato ai Canti dell’Inferno di Dante Alighieri, costituito da una grande disegno e da 15 scatti che visualizzano alcuni dei momenti salienti del viaggio del poeta tra i dannati.

Benedetta Cestelli Guidi

L’Inferno segna un passaggio decisivo della tua pratica artistica; dopo aver realizzato Nel Paese delle meraviglie (2008), Escape (dal Don Chisciotte, 2009) e La Principessa sul pisello (2009) hai scelto un testo difficilissimo, in cui tanti altri primi di te si sono cimentati. Un confronto rischioso e arduo essendo l’Inferno la piùsconvolgente esperienza splatter della letteratura prima dei romanzi di Est Breton Ellis.

Valentina Vannicola

L’Inferno esiste come progetto prima degli altri, quando ho iniziato la rilettura de La Principessa sul pisello di Andersen nel settembre 2009, possedevo già una cartellina rossa piena di appunti e schizzi riguardanti la prima Cantica. Il confronto con i grandi genera spesso una dovuta insicurezza paralizzante che solo con il tempo sono riuscita a metabolizzare e a trasformare in un’ossessiva esigenza: l’Inferno è l’opera letteraria che più di ogni altra è stata creata per essere enunciata in immagini. Il linguaggio dantesco plasma di per sé visioni e suggestioni, sia attraverso la descrizione diretta, sia attraverso figure retoriche che richiamano comunque aspetti visivi. La traduzione del poema per immagini risulta essere da subito un processo naturale, i primi codici danteschi apparvero già dal 1340-45 e di lì questi stessi versi continuarono a essere corteggiati da molti artisti: da Botticelli a Blake a Gustave Dorè; perché La Divina Commedia è di per sé un racconto per immagini ed èimpossibile resistere ad una cosìspudorata tentazione.

BCG

Il nostro sguardo coincide con quello di Dante: siamo in soggettiva. Quanto ha influito il cinema, e quale cinematografia in particolare, sulla tua visione?

VV

La Commedia è un’opera in soggettiva, l’uso della prima persona è una delle caratteristiche che rende innovativo il poema rispetto alla tradizione. Non abbiamo un eroe dentro la vicenda (come nei grandi poemi antichi e medievali) ma un protagonista che si fa narratore e che possiede un’anagrafe ben precisa: sappiamo che è fiorentino, a quale famiglia appartiene e quali sono state le sue vicissitudini politiche. Proprio questo carattere rende ancora più attuale e tangibile l’opera, e più diretti gli incontri con i dannati. Dunque, la prima scelta, proprio per continuare a garantire l’effetto narrativo della prima persona, è stata quella di eliminare la possibilità di una terza visione che includesse sulla scena la presenza di Dante e Virgilio; ma piuttosto osservare dal loro punto di vista. Una vera e propria soggettiva in cui sono stata aiutata sicuramente dalla conoscenza della metrica cinematografica in generale, ma da nessun film in particolare. Ho cercato di far coincidere il mio sguardo con quello del poeta: se vi era una visione dall’alto o dal basso, da lontano o in avvicinamento, e sono rimasta il più fedele possibile al punto occupato da Dante nello spazio. Ad esempio nel VII Canto ci troviamo nel Cerchio degli avari e dei prodighi, colpevoli di peccati contrari ma generati da una stessa matrice e condannati a spingere pesanti massi raggruppati in due le opposte. Teoricamente avrei dovuto comporre la scena con le due schiere ma ho preferito porre l’accento sugli avari che, nei versi danteschi, sono posizionati a sinistra, quindi, ho montato l’azione alla sinistra del punto macchina.

BCG

Dopo aver conseguito la laurea in Filmologia presso il dipartimento di Arti e scienze dello Spettacolo ti sei iscritta alla Scuola Romana di Fotografia. Come èavvenuto il passaggio dalla formazione/conoscenza alla pratica del fare?

VV

Io avevo un’idea ben precisa e molto romantica dell’Università, un misto tra Hogwarts e Welton (il collegio maschile dell’Attimo fuggente), cosa che ovviamente non può coincidere con la realtà de La Sapienza. Ho studiato comunque con costanza ed interesse pur nell’inadeguatezza dell’esser persa dentro un oceano aleatorio, dove l’incontro con il relatore della mia tesi è stata forse una delle uniche reali occasioni di positiva e prolifera discussione, la prova che i concetti postulati e chiusi tra le pagine possano essere messi in pratica e confrontati. Terminato l’idilliaco momento post laurea sono prontamente stata assalita da un profondo senso di vuoto e spaesamento che dovevo colmare con qualcosa di diametralmente opposto alla causa della mia condizione: avevo bisogno d’impadronirmi della tecnica. Le due cose non si escludono vicendevolmente, sono l’una il prolungamento dell’altra; non lo leggo come un passaggio ma come una convergenza, una compensazione delle due sfere. “La pratica del fare” cui accenni è un mezzo per racchiudere ed esprimere la “formazione/conoscenza” che se non tenuta sotto controllo, nel mio caso, diviene una presenza fine a se stessa e alienante e non può più essere alimentata.

BCG

In questo lavoro più che in quelli precedenti co-protagonista è il paesaggio della Maremma laziale nei dintorni di Tolfa; è un omaggio alla terra materna, il pagamento di un tributo ai luoghi che ispirano la tua visione.

VV

Nell’Inferno il paesaggio ha un ruolo nevralgico, anzitutto Dante ha creato nell’immaginare il suo viaggio oltremondo una struttura dell’aldilà che non esisteva prima di lui, è il primo a dare a questi luoghi una collocazione geografica: situa l’Inferno sotto la città di Gerusalemme, il Purgatorio ai suoi antipodi sulle pendici della montagna in cima alla quale situa il Paradiso Terrestre. Ciò corrisponde alla storicità che governa tutto il poema, che è un racconto di un evento reale passando per luoghi reali, e non a caso nel suo saggio E. Auerbach definisce Dante un poeta del mondo terreno. L’ambiente che circonda il nostro viandante è sì popolato degli elementi propri dell’inferno: oscurità, fuoco, lamenti; ma spesso i Cerchi sono paragonati ai luoghi della terra ben noti ai lettori. Così è per le tombe degli eretici con i sepolcreti di Arles e Pola o con la macchia mediterranea per la selva dei suicidi. Il paesaggio è cioè fondamentale in Dante per conferire quel carattere reale al suo viaggio ultraterreno.
Proprio in questo ho trovato uno dei principali punti di rappresentabilità dell’opera. Di lì è stato un processo naturale quello di accompagnare la lettura dei versi con la visione dei luoghi della mia terra, che di per se è già una perfetta scenografia, con le sue colline brulle, con la desolata nebbia mattutina, icorsi d’acqua livida.
Questi luoghi sono fissati indelebilmente nella mia memoria, sono la mia memoria, le mie radici e ogni volta che affronto un progetto mi scorrono davanti come messe in visione da un vecchio proiettore di diapositive: tac, tac, tac...

BCG

L’aspetto local dei tuoi lavori, il fatto che siano radicati e prendano linfa dalla tua terra di appartenenza è un elemento a tal punto caratterizzante dei tuoi progetti che, fino ad oggi, non hai mai realizzato lavori al di fuori della Maremma laziale; nell’Inferno è il territorio che va dalla costa di Santa Severa alla Caldara di Manziana e poi su no alle colline dei dintorni di Tolfa. Questi set naturali sembra partecipino alle pene dei dannati e ciò fa pensare alla poetica del Romanticismo che aveva cara l’idea secondo cui la natura stessa rifletteva lo stato d’animo del poeta.

VV

Alla natura è assegnato un ruolo da protagonista nei miei lavori, ed in questo in particolare è indispensabile per garantire quell’aurea di sospensione che ho cercato di ricreare nelle immagini. Una natura invernale, cupa, piovosa, spesso deserta e infinita, che sviluppa un rapporto empatico con i personaggi che la popolano. Tuttavia anche se il risultato può avvicinarsi al sentire romantico credo che una differenza con esso vada ricercata nelle origini. Il poeta romantico cerca la natura perché ormai vivendo nella civiltà e nella cultura se ne è separato, mentre il poeta ingenuo (cioè il poeta antico) è natura. Mi intriga di più questa seconda modalità, tipica della cultura greca dove esisteva ancora un rapporto diretto con la natura con cui si stava a contatto. Credo che chiunque sia cresciuto in campagna si riconosca di più con questo fare del mondo antico e generi con il proprio habitat un tipo di rapporto “ingenuo”: non si avventura alla ricerca del paesaggio empatico e “stordito” ma si sente piuttosto a proprio agio in esso.

BCG

La partecipazione della comunità tolfetana è l’altro elemento distintivo del tuo lavoro e lo rende un progetto corale cui tutti partecipano: la nonna, la maestra della scuola elementare, il becchino, il giornalaio... si potrebbe parlare di un lavoro di comunità partecipata.

VV

Coinvolgere familiari e vicini di casa nelle messe in scena fotografiche inizialmente è stato un esperimento e devo dire che nei loro sguardi si leggeva disorientamento e un forte senso di inadeguatezza. Ma sto parlando di preistoria, ora siamo paragonabili ad un circo ambulante: gli “attori” non sono piùsoltanto tali, ma divengono anzitutto validissimi assistenti e in alcuni casi registi di loro stessi. Non credo sia più propriamente giusto definire questi unicamente come miei progetti, mi sembrerebbe più leale parlare di una creazione corale. In questo lavoro ho assistito ad una vera e propria mobilitazione: alcuni erano perennemente attenti al reperimento dei materiali o nel coinvolgimento di nuove comparse, altri ossessionati dalle locations e nello svolgere i lavori campestri prestavano attenzione a un albero isolato o a una landa arata di fresco per poi riferirmelo. Insomma l’inadeguatezza iniziale si è trasformata prima in curiosità e poi finalmente in partecipazione.

BCG

In quale modo la tradizione della staged photography da Jeff Wall in poi ha influenzato il tuo lavoro? In Italia un parallelismo è con il processo artistico di Paolo Ventura, anche se lui costruisce i suoi set teatrali in dimensioni ridotte mentre i tuoi set sono in scala 1:1 e durano solo il momento dello scatto.

VV

Anche se apprezzo il lavoro di Jeff Wall non lo conosco approfonditamente da poterne essere stata ispirata. Sicuramente l’approccio allo scatto è simile: la scena non è improvvisata ma preparata con largo anticipo ed è interpretata da attori che si muovono sul set. Ugualmente ammiro la maniacale attenzione che impiega Paolo Ventura nella costruzione dei suoi mondi altri, quella sua profonda immersione nei micro universi che crea con un’esattezza meticolosa da renderli autosufficienti.
Credo che nella staged photography in generale (considerando le sue diverse accezioni e sfumature), il punto focale sia l’aspetto narrativo dell’immagine che deve essere costruita in modo tale da sembrare pulsante di vita, reale pur appartenendo a un mondo di finzione: è questo l’aspetto che più mi attrae di questo campo. Ciò che cerco è un cosmo artificiale illuminato da una luce naturale ma calcolata, che si estende su luoghi esistenti lungamente ricercati e che viene animato dai volti di persone comuni che si trasformano in personaggi.

BCG

Quando il set è pronto, gli attori sistemati, la luce naturale giusta, la macchina caricata con un rullo 6x6 fai pochissimi scatti; una pellicola da 12 può contenere due o anche tre fotografie “buone”. In questa economia dello scatto sei straordinariamente contro tendenza: l’immagine, mentale e reale, è già formata, non c’è bisogno di “cercarla” attraverso una successione ampia di scatti.

VV

Generalmente a me interessa non un’immagine ma quell’immagine, la scena che è già presente tra le righe dell’opera letteraria che sto analizzando, che memorizzo nel bozzetto e che poi vado a scattare. La fotografia è il mezzo con cui rendo tangibile le mie razionali visioni trasformandole in narrazioni.

BCG

Su i due lussuriosi di Paolo e Francesca vorrei raccontassi il processo che dalla lettura del testo porta alla scelta della posa.

VV

Il V Canto, anche se uno dei più letti e conosciuti, popolarissimo sui banchi di scuola, è stato quello di più difficile trasposizione.
In questa sede il nostro pellegrino affronta il primo vero e proprio incontro con l’inferno. Si lascia alle spalle la corsa affannosa dei pusillanimi e la sospensione del Limbo per imbattersi nel peccato: un peccato d’amore, un peccato di carne. Tutta la narrazione è pervasa dallo spirito di pietà, quel sentimento che nutre il nostro narratore verso l’ultraterrena popolazione che va scemando man mano che la pena si aggrava: alta e commossa in questo Canto, si fa minore nel mondo della frode dove l’uomo inizia a perdere la propria dignità.
Dunque, l’immagine avrebbe dovuto narrare l’apertura di sipario sul tema della damnatio e quello della pietà, superando l’ostacolo più grande: liberarsi del rimando iconografico classico del V Canto, ossia l’effige dei due giovani intenti a scambiarsi un acrobatico bacio su di una poltrona ingombrante, in una posizione scomodissima. Ho letto e riletto questi passi senza mai riuscire a vederli, finché poi finalmente li ho intesi cogliendo il nucleo da cui far esplodere il tutto: le similitudini con gli uccelli che caratterizzano il Canto.
Le anime travolte dalla bufera infernal ci vengono presentate dapprima come una schiera di stormi trascinata nell’aria da un vento invernale, una similitudine“visiva” seguita da una “sonora” che giunge a suggerirci invece il suono prodotto dal lamento dei dannati : «come i gru van cantando i lor lai,/ faccendo inaere di sél unga riga,/così vid’io venir, traendo guai,/ ombre portate da la detta briga». Infine la terza ed ultima figura retorica che il poeta utilizza per narrare l’entrata in scena di Paolo e Francesca puntando i riflettori sulla loro natura gentile: «quali colombe dal desio chiamate/ con l’ali alzate e ferme al dolce nido/vengon per l’aere dal voler portate». Tre paragoni affdati agli uccelli, una scelta con una doppia valenza: anzitutto queste creature erano considerate nei testi antichi animali particolarmente lussuriosi, quindi vi è un rapido rimando logico al peccato punito; inoltre Dante ci offre delle visioni che nobilitano ed ingentiliscono questi spiriti mali travolti in un volo leggero, tra lamenti melodiosi che ci regalano una dolcezza ignota agli altri Canti.
Insomma, ora l’immagine si era finalmente composta: due giovani colombe vengono per l’aere dal voler portate, s’aggrappano con forza al ramo d’un albero che affonda le radici in una terra cosparsa di uccelli.

BCG

In mostra e nel libro abbiamo deciso di presentare il bozzetto realizzato a carboncino, penna e matita: una grande disegno del cono rovesciato – secondo la tradizione iconografica dell’Inferno – in cui hai evidenziato le pene che intendevi tradurre in immagine. Prima di intraprendere le fasi che portano alla realizzazione dello scatto fai sempre degli schizzi: un piccolo album per fissare le scene de La Principessa sul pisello, uno storyboard per Escape, e per l’Inferno questo gigantesco grafico

VV

Il bozzetto è un momento molto importante del mio processo di lavoro, una schematizzazione che mi permette di avere una visione chiara e lineare dell’argomento affrontato. Nel caso dell’Inferno è stato a dir poco fondamentale. La Divina Commedia è un’opera razionale, vi è un prima e un dopo spaziale, geografico e morale; l’unico modo per memorizzare questo rigore è stato quello di prendere dalla legnaia un rotolo di carta e buttare giù il ritratto dell’"imbuto". Una volta diviso in gradoni vi ho appuntato i Cerchi, i Gironi, i Canti, le ore e pian piano li ho popolati di micro schizzetti dei dannati colti nell’espiazione. Per mesi ho vissuto con questo pezzo di carta (di 1,80 x 1,50 cm) e giorno dopo giorno l’ho nutrito con le nuove intuizioni, i contrappassi, le location visitate, le angolazioni della macchina. Insomma una vera e propria mappa senza la quale nulla sarebbe potuto nascere.

BCG

Altro elemento distintivo del tuo lavoro sono le installazioni che realizzi nei set: sono quasi sempre costruite con materiali poveri, trovati tra il patrimonio familiare – penso ai bicchieri del corredo di tua nonna che puntellano la pena del falsario. Fanno pensare che tu conosca bene e tragga ispirazione dal movimento dell’Arte Povera degli anni ’60: Pino Pascali, Mario Merz, Jannis Kounellis

VV

A differenza degli artisti degli anni ’60, il mio utilizzo dei materiali poveri non nasce dall’esigenza di rifiuto dei mezzi espressivi e materici tradizionali, ma è un discorso legato soprattutto all’immediatezza del reperimento degli oggetti nel mio contesto quotidiano e quindi, ancora una volta, all’importanza del tessuto comunitario in cui opero. In paese tutto è rintracciabile ed ho chiaro in mente un elenco di ciò che potrei trovare e dove: i bicchieri non potevano essere che quelli del corredo nuziale di mia nonna, la vasca dove è immersa la lettrice di Escape è quella dove si abbeverano i cavalli soltanto dipinta d’azzurro e il casco asciugacapelli appartiene a zia Lucy che in passato esercitava la professione di parrucchiera. Nella ricerca del materiale scenico spesso mi piace puntare l’attenzione sugli elementi appartenenti al mio patrimonio familiare o alla semplice quotidianità.

Quindi, inavvertitamente, sotto questa accezione, condivido con gli anni ’60 questo “feticismo” dell’oggetto, il rituale della materia: elementi appartenenti alla sfera comune e quotidiana che entrano a far parte del processo d’installazione. In tal senso mi viene in mente il lavoro “poverista” di Kounellis che prende vita attraverso la messa in scena di lana grezza su pali e telai; cotone e carbone racchiusi in contenitori metallici o sacchi di juta riempiti di riso e grano ed esposti. Oppure la despazializzazione che Merz compie con i suoi neon sugli oggetti come balle di paglia e bottiglie.
In questi casi è leggibile una volontà di riappropriarsi della materia, che secondo il movimento era stata messa al servizio unicamente del consumismo e del mercato, ma traspare anche l’importanza che la concretezza del reale assume nell’opera. Sicuramente sono lontana dalle strutture ideologiche espresse in quest’epoca anche se anch’io sono un’ “adepta” dell’oggetto “obsoleto”, che nel mio caso sopraggiunge per affermare l’incombenza del reale in un contesto di finzione, cercando così di garantire una sensazione di estraneazione.

BCG

Da qualche mese sei entrata a far parte dell’Agenzia OnOff Picture e della galleria Wunderkammer: due realtà molto diverse per scopo e progetti.
Pensi di riuscire ad abbandonare la madre terra maremmana per la prima volta? Sei una persona che ama le sfide e questa mi sembra quella più coraggiosa che hai finora intrapreso...

VV

La cosa che mi ha spinto verso questa scelta meditata è la curiosità o la necessità di capire se il mio è un metodo attuabile in ogni luogo e comunità oppure è strettamente legato al mio habitat naturale e può avere ragione di esistere soltanto lì. Rimango ancora fiduciosa poiché entrambe sono realtà molto interessanti che non mi posso lasciar sfuggire per un presunto patriottismo creativo. OnOff Picture è un’agenzia giovane che lavora a progetti molto stimolanti nella quale ho la preziosa opportunità di confrontarmi con il mondo dell’editoria, e soprattutto con professionisti del settore che operano in campi fotografici diversi dal mio. La Wunderkammer è una situazione molto diversa: una galleria d’arte contemporanea con la quale sto aprendo un periodo di stretta collaborazione cullando, proprio in questi giorni, l’embrione dei prossimi lavori.

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